- Il fioretto di domani è questo - disse il predicatore, leggendo un cartellino: - Voi offrirete a Maria Vergine i sentimenti di rancore che avete nel cuore e abbraccerete la compagna di scuola, la maestra, la serva che credete di odiare.
Nella penombra della cappella vi fu un movimento tra le educande grandi e tra le maestre: le piccine non si mossero. Delle piccine qualcuna sonnecchiava, qualcuna sbadigliava dietro la manina: sui rotondi visetti si dilatava la contrazione della noia. La predica era durata un'ora e le piccole non capivano nulla. Avevano voglia di cenare e poi di dormire. Ora il predicatore era disceso dal piccolo pulpito, e sull'altare, Cherubina Friscia, la maestra sagrestana, accendeva i ceri col lumino. La cappella entrava a poco a poco nella luce. I volti sbiancati e sonnacchiosi delle piccole si facevano rosei in quel chiarore: dietro, le grandi rimanevano immobili, con gli occhi che ammiccavano nello sbarbaglio, con le facce rilassate nella indifferenza. Qualcuna, col capo abbassato, pregava. Su queste teste chine batteva la luce dei ceri, giocando sulle grosse trecce costrette sulla nuca, su certi riccioli biondi, invano tenuti a posto dalle pettinessine. Poi, come tutta la cappella fu illuminata per la recita del rosario, il gruppo delle educande, coi vestiti bianchi di mussola, i grembiuli neri, e le cinture di varii colori per distinguere le classi, prese un aspetto gaio, malgrado la stanchezza e la noia che pesavano su quella gioventù.
Un profondo sospiro sollevò il petto di Lucia Altimare.