La giovane donna era brutta - e bellissima. Ella si chiamava Adriana, e aveva un tipo spiccato, meridionale: occhi neri, vivacissimi; bocca larga, sensuale, denti piccini e forti: una ricca massa di capelli neri, incorniciatura forse troppo abbondante per il piccolo viso rotondo, da monella impenitente. No, certo: non aveva un'aria distinta, ma dalle mosse rapide e ardite, delle fiere audacie da popolana, degli scatti d'entusiasmo, delle potenti rivolte quasi maschili - e tutto ciò unito a delle risolute cortesie da giovinetto convinto del proprio ingegno, che sa d'esser destinato a grandi cose, e non chiede protezioni. Col suo contegno poco femminile, e coi suoi lineamenti irregolari, Adriana apparteneva a quel genere di donne che gli uomini temono, ammirano, e non amano forse per paura di adorarle.
Quella sera, nell'elegante salottino della redazione, Adriana Errera leggeva attentamente il nuovo romanzo di Arnaldo Da Mira, senza curarsi del biondo e roseo giovinotto, che scriveva presso di lei. La penna di Fabio Sorrenti, scorrendo ardita sulla carta lucida, e bianca, sembrava raccontare di cose maligne, mentre il giornalista ripeteva due, tre volte ogni parola, ad alta voce, fermandosi spesso per rileggere quel brano scandaloso di cronaca che gli usciva dalla mente come uno squarcio di poesia dell'epoca romantica, irto di punti d'esclamazione, infiorato di interrogazioni, ricco, straricco di puntini di sospensione. Con quale prodigiosa rapidità si succedevano quelli scellerati puntini! Fitti, fitti, regolari, uno dopo l'altro, a regolare distanza, tre volte malevoli: calcolata civetteria di una prosa perversa, che nell'insieme assomigliava assai a quelle lettere stupide e cattive che provano tutto e non provano nulla: frutto della passione, negazione dell'amore.